Clausola penale nell’incarico di mediazione immobiliare: a distanza di dieci anni dall’ultima pronuncia in materia, la Suprema Corte con sentenza n. 19565 del 18 settembre 2020 è tornata a statuire sul diritto al compenso del mediatore in caso di mancata conclusione dell’affare finale per fatto imputabile al venditore.

Non di rado, infatti, accade che il conferente incarico decida di non vendere più, indipendentemente e malgrado l’attività svolta dal mediatore ovvero decida di rifiutare le offerte reperite dal mediatore, quandanche conformi alle sue pretese. In tali ipotesi, nulla è riconosciuto al professionista incaricato nonostante abbia prestato i propri mezzi e la propria organizzazione alla ricerca del terzo interessato all’affare, ad eccezione di quanto previsto dall’art. 1756 c.c. per le spese ‘vive’, di cui però occorre dare concreta prova dell’esborso.

Proprio al fine di fronteggiare tale evenienza ed evitare che il dispiego di forze ed energie impiegate dal mediatore risulti vano (e costituisca, in sostanza, un vero e proprio danno), spesso è inserita nei contratti di mediazione immobiliare una clausola contrattuale, in virtù della quale si riconosce al mediatore la corresponsione del compenso anche nel caso in cui l’affare non sia stato concluso per fatto imputabile al venditore.

Nella sua precedente pronuncia (Cass. Civ. 22357/2010), la Cassazione prendeva in analisi due differenti ambiti applicativi della clausola contrattuale: la prima ipotesi si verifica qualora il rifiuto di concludere l’affare da parte di chi abbia conferito l’incarico sia stato determinato dall’esistenza, originaria o sopravvenuta, di circostanze impeditive della conclusione stessa, taciute al mediatore. In tal caso, la previsione dell’obbligo di corrispondere una provvigione origina dalla violazione dei doveri di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.) da parte del conferente incarico, integrando a pieno titolo una c.d. clausola penale.

La seconda ipotesi si verifica qualora il venditore rifiuti di accettare una proposta conforme alle sue aspettative, reperita dal mediatore. La Corte ha sottolineato, però, come ai fini della validità e dell’efficacia di detto patto sia necessario che la provvigione non venga prevista in misura identica (o vicina) a quella stabilità per il caso in cui l’affare fosse stato concluso, ma debba essere adeguata all’opera concretamente svolta fino a quel momento dal mediatore.

Qualora il conferente incarico non sia una società, ma un privato cittadino che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, sarà necessaria una lettura di detta clausola alla luce della disciplina del D. Lgs. 206/2005.

L’art. 33 del Codice del Consumo, infatti, contiene un elenco di venti clausole che si presumono vessatorie per il consumatore, comportando un eccessivo squilibrio tra i diritti e gli obblighi nascenti dal contratto stesso.

In particolare la lett. e) dell’art. 33, co. 2, classifica come vessatoria la clausola con cui si consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest’ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta nel caso in cui sia quest’ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere. Inoltre, la lett. f) del medesimo articolo menziona come vessatoria la clausola con cui si imponga al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente di importo manifestamente eccessivo.

È ben chiaro come una clausola di siffatta guisa ben possa integrare una potenziale clausola vessatoria, incapace di superare il vaglio di vessatorietà del giudice.

Chiamata a pronunciarsi sull’efficacia di una clausola penale attivata a seguito del recesso del venditore a distanza di una settimana dal conferimento dell’incarico, con la sentenza ricordata la Suprema Corte ha esteso il suddetto principio anche all’ipotesi di recesso del venditore.

Seppur nel caso di specie non abbia deciso a favore del mediatore, la Corte ha ribadito il principio secondo cui, ai fini dell’efficacia del patto con cui si stabilisce il pagamento del compenso del mediatore nonostante la mancata conclusione dell’affare finale per fatto a lui non imputabile, la provvigione non possa essere prevista in misura fissa, ma debba essere rapportata all’attività sino a quel momento concretamente svolta dal mediatore.

Se ne deduce, dunque, che supererà il vaglio di vessatorietà del giudice la clausola che:

  • preveda il trattenimento di una somma di denaro tanto a carico del venditore quanto a carico del professionista (nella misura del doppio), nell’ipotesi di recesso o di inadempimento;
  • non sia stata unilateralmente imposta dal mediatore, ma abbia, di contro, formato oggetto di specifica trattativa individuale tra i contraenti, sempre che questa soddisfi i requisiti di individualità, serietà ed effettività;
  • non preveda il pagamento di una somma di denaro manifestamente eccessiva a carico del consumatore, in caso di recesso;
  • e non preveda, quindi, una provvigione in misura fissa, ma progressiva, attraverso un meccanismo di adeguamento dell’importo del compenso al tempo e all’attività in concreto svolta dal mediatore nel dare esecuzione al contratto.

Una tale previsione e la diffusione di clausole di tal genere garantirebbero finalmente e pienamente ambedue le parti coinvolte nel contratto di mediazione: da un lato, il venditore non solo continuerebbe ad essere tutelato in tutti i suoi diritti, rimanendo libero di decidere di non vendere più e/o di esercitare il diritto potestativo di recesso ma sarebbe altresì tutelato a sua volta nel caso di inadempimento/recesso da parte del mediatore; il mediatore, d’altro canto, potrebbe essere finalmente al riparo dal rischio di veder svanire nel vuoto il suo compenso, nonostante l’impegno e le energie profuse.

Articolo a cura della Dott.ssa Roberta Melissano.

Le considerazioni espresse si riferiscono al momento storico in cui l’articolo è stato redatto.

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