Il padre che rinnega ed impugna il riconoscimento del figlio a suo tempo fatto è tenuto a risarcire il danno in favore del figlio falsamente riconosciuto. Questo in sintesi il principio espresso con la sentenza 27 aprile 2016.

Falso riconoscimento del figlio: si al risarcimento del danno – Va premesso che l‘art. 263 c.c. consente all’autore del riconoscimento di impugnare l’atto per difetto di veridicità, senza escludere la legittimazione in capo a chi era consapevole della falsa dichiarazione.

La norma è stata riscritta, come noto, dal Dlgs n. 154 del 2013, con contenuti senz’altro innovativi; nella sua precedente formulazione, aveva tuttavia fatto sorgere dubbi di legittimità e coerenza con il sistema di valori della Costituzione, sia con riferimento alla possibile impugnazione del riconoscimento da parte di chi lo aveva effettuato in malafede (ossi nella consapevolezza della falsità dell’atto), sia con riferimento all’imprescrittibilità dell’azione (con conseguente disparità di trattamento del figlio cosiddetto naturale riconosciuto rispetto al figlio cosiddetto legittimo e permanente esposizione del primo alla possibilità di perdita del suo status).

Proprio alla luce di tali rilievi, parte della giurisprudenza di merito (si veda tribunale di Roma 19563/2012) aveva negato la possibilità di impugnareex articolo 263 del Cc il falso riconoscimento a chi lo aveva compiuto in malafede, interpretando tale impugnazione quale inammissibile revoca implicita del riconoscimento (non consentita dall’articolo 256 del Cc). La stessa legge 40/2004, all’articolo 9, nega del resto a chi ricorre a tecniche di fecondazione assistita di tipo eterologo il diritto di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, non concedendo quindi il diritto a un ripensamento a chi sceglie di generare un figlio attraverso le predette tecniche e si assume pertanto consapevolmente gli obblighi connessi alla genitorialità con riguardo a un figlio con cui non ha un legame biologico (e ciò alla luce del principio di responsabilità, principio che ha un valore particolarmente pregnante, quando riguarda il rapporto genitore-figlio).

La disciplina enucleata nell‘articolo 263 del Cc è stata, come detto, sottoposta a revisione sostanziale. Il nuovo testo della norma si muove nella medesima direzione tracciata dalla legge 40 cit., essendo la norma volta a scardinare il primato della verità naturale: se, da un lato, essa non esclude la legittimazione in capo a chi aveva operato il riconoscimento pur consapevole della sua falsità (anzi il nuovo testo dell’articolo del codice opera un distinguo tra chi prova «di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento» e chi non fornisce questa prova), introduce tuttavia serrati termini di decadenza per l’azione di impugnazione del riconoscimento – a tutela del diritto alla conservazione dello status – azione che resta imprescrittibile solo con riguardo al figlio (al quale solo è rimessa la scelta se far prevalere la verità biologica rispetto a quella giuridica). La riscrittura dell’articolo 263 del Cc,ponendo un termine di decadenza di un anno a chi abbia riconosciuto, ove voglia impugnare il proprio riconoscimento, pone al centro del sistema l’identità del figlio e il suo diritto alla conservazione dello status ormai acquisito.

Proprio offrendo questa ricostruzione normativa e giurisprudenziale, il Tribunale milanese si persuade della “scorrettezza” dell’azioneex articolo 263 del Cc proposta nel vigore del vecchio testo da chi abbia falsamente riconosciuto in modo consapevole, per proprio interesse personale: ne ricava una condotta lesiva del diritto del figlio alla identità personale e sociale e ne trae la sussistenza di un danno endofamiliare: il tribunale predica, in particolare, la risarcibilità del danno arrecato dal genitore al figlio a seguito di falso riconoscimento, seguito da azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità; «tale danno è qualificato come danno non patrimoniale connesso alla lesione della propria identità, alla necessità di reinserirsi nel contesto sociale con un nuovo cognome, alla sofferenza legata alla repentina scoperta di una nuova realtà circa le proprie origini, alla perdita di legami familiari consolidati, senza possibilità di crearne di nuovi».

Le precisazioni dei giudici di Milano – Il Tribunale precisa che la condotta di chi impugni il riconoscimento – pur configurando l’azione ex articolo 263 del Cc«l’esercizio di un diritto – non può ritenersi giustificata da un apprezzabile interesse (non jure) o, quantomeno, l’interesse perseguito dall’attore recede, nell’ambito di una valutazione comparativa, rispetto al contrapposto interesse della figlia alla conservazione della propria identità personale e del proprio status». La condotta del padre che proponga azione «determina quindi un danno ingiusto, risarcibile secondo i consolidati principi in tema di responsabilità aquiliana, in quanto lede degli interessi meritevoli di primaria tutela e di valore preminente rispetto all’interesse alla riaffermazione del principio di verità biologica». All’esito dello scrutinio, il Tribunale condanna il “finto” padre al risarcimento del danno in favore della (non più) figlia per euro 40.000 confermando, così, i parametri liquidatori dell’ufficio che, proprio in altro caso di danno endofamiliare causato dal padre alla figlia, aveva offerto ristoro per euro 40.997,50 (si veda tribunale di Milano, sezione IX civile, sentenza 16 – 23 luglio 2014, Presidente Servetti).