Perché pago l’accettazione tacita dal Notaio pur avendo già adempiuto alla dichiarazione di successione? 

Questa è la domanda che spesso viene formulata da chi si appresta a vendere l’immobile ricevuto in eredità. Cerchiamo di spiegare, dapprima, con linguaggio semplice e, successivamente, in termini tecnici.

La dichiarazione di successione non costituisce, di per sé, un atto di accettazione dell’eredità idoneo ad essere trascritto. Esso consente, al più, di ottenere un cambio di “intestazione” dell’immobile al Catasto. Tanto non è, però, ancora sufficiente a completare tutte le trascrizioni necessarie nella Conservatoria dei Registri Immobiliari (che è cosa diversa dal Catasto), destinate a garantire la sicurezza negli scambi e la tutela degli acquirenti. Per fare ciò, occorre un formale atto di accettazione dell’eredità da svolgersi innanzi ad un notaio – o accertato con sentenza – espresso o tacito, che consenta la trascrizione nei Pubblici Registri Immobiliari.

Dichiarazione di successione e accettazione dell’eredità sono, quindi, due istituti differenti, nonostante possa apparentemente sembrare un’inutile duplicazione di dichiarazioni e, soprattutto, di costi.

Ne discende che in sede di compravendita di un bene proveniente da una successione, il Notaio incaricato dovrà previamente procedere alla trascrizione dell’accettazione (anche tacita) dell’eredità, dalla quale conseguiranno due effetti sul piano civilistico: anzitutto, il chiamato all’eredità assumerà formalmente la qualità di erede (ex art. 459 c.c.) ed, in secondo luogo, sarà possibile procedere alla trascrizione della compravendita nei Pubblici Registri Immobiliari, in ottemperanza al principio di continuità delle trascrizioni. Sulla scorta di tale principio, infatti, nei casi in cui un atto di acquisto sia soggetto a trascrizione, in assenza di trascrizione dell’atto di acquisto precedente (id est: l’accettazione dell’eredità), le successive trascrizioni o iscrizioni carico dell’acquirente non producono effetto, privando quest’ultimo di ogni tutela giuridicamente rilevante.

Tanto, dunque, è tenuto a fare chi, chiamato all’eredità, intenda alienare un bene immobile (o mobile registrato) caduto in successione, non essendo sufficiente a tal fine la sola presentazione della denuncia di successione all’Agenzia delle Entrate.

La dichiarazione di successione, infatti, costituisce un mero modello dichiarativo utilizzato per adempiere agli obblighi fiscali in materia di imposta di successione, nel quale vengono riportati i beni e/o i diritti del de cuius, caduti in eredità.          

L’art. 28 del d. lgs. n. 346/1990 (Testo Unico sulle imposte di successione e donazione) prescrive che la dichiarazione di successione debba essere presentata, presso l’ufficio del registro competente e su apposito modello, entro dodici mesi dall’apertura della successione (id est: dalla morte del de cuius ex art. 456 c.c.)[1]. Detto obbligo grava su una molteplicità di soggetti, pur non essendo richiesto che tutti procedano e/o partecipino all’adempimento, in quanto è sufficiente che anche uno soltanto di essi vi provveda. Tra quanti sono tenuti alla presentazione della dichiarazione di successione figurano: gli eredi ed i legatari, che vengono chiamati all’eredità, gli ammessi al possesso dei beni ereditari, gli amministratori ed i curatori dell’eredità, gli esecutori testamentari ed i trustees.

Sulla base, poi, di quanto dichiarato nel suddetto modello, l’Agenza delle Entrate definirà l’ammontare dell’imposta ipotecaria, dell’imposta catastale, dell’imposta di bollo, della tassa ipotecaria e dei tributi speciali qualora siano caduti in successione terreni e/o fabbricati, che il/i dichiarante/i è tenuto a versare all’Erario.

Tanto non è però sufficiente a che l’eredità possa ritenersi accettata. Nonostante, infatti, nella presentazione della dichiarazione di successione possa ravvisarsi un comportamento concludente del chiamato all’eredità quale erede, la Suprema Corte ha escluso che tale adempimento comporti accettazione tacita dell’eredità, richiamando il consolidato orientamento secondo cui “l’accettazione tacita dell’eredità può essere desunta dal comportamento complessivo del chiamato che ponga in essere non solo atti di natura meramente fiscale, come la denuncia di successione, inidonea di per se’ a comprovare un’accettazione tacita dell’eredità (Cass. n. 178/1996; n. 5463/1988; n. 5688/1988), ma anche atti che siano al contempo fiscali e civili” (Cass. 11478/2021).

La Corte ha fondato il proprio orientamento sull’assunto secondo cui la dichiarazione di successione e il relativo pagamento delle imposte sono atti non idonei ad esprimere in modo certo ed univoco l’intenzione di accettare la qualità di erede, avendo gli stessi semplicemente e meramente una valenza fiscale, improduttiva di effetti sotto il profilo civilistico ed essendo sempre consentito al “dichiarante” di rinunciare all’eredità (nonostante abbia egli stesso presentato la denuncia di successione).

 

[1] Il comma 7 dell’art. 28 d.lgs. n. 346/1990 prevede soltanto un’ipotesi in cui la presentazione della dichiarazione di successione non è obbligatoria, e cioè quando “l’eredita è devoluta al coniuge e ai parenti in linea retta del defunto e l’attivo ereditario ha un valore non superiore a euro centomila e non comprende beni immobili o diritti reali immobiliari, salvo che per effetto di sopravvenienze ereditarie queste condizioni vengano a mancare.”