Con la recentissima sentenza n.15463 del 23 Aprile 2021, La Suprema Corte ha esaminato le fattispecie di reato di rifiuto di atti di ufficio, di somministrazione di farmaci guasti o imperfetti e di morte in conseguenza di altro delitto, addebitati al direttore sanitario di un centro trasfusionale nel catanzarese, a cui, nemmeno sorprendentemente, la prescrizione e non solo hanno donato l’impunità.
I fatti risalgono al 10 novembre 2012, quando un paziente ha perso la vita a causa di uno shock settico da batteriemia, dovuto alla trasfusione di una sacca ematica contaminata. Per detti fatti, il direttore sanitario era stato condannato dalla Corte d’Appello di Catanzaro per non essersi attivato per porre rimedio alle criticità riguardanti una partita di sacche ematiche del centro trasfusionale, che erano state evidenziate nel rapporto “audit” redatto a seguito dell’ispezione della Struttura Commissariale della Regione Calabria, nel settembre 2012. Inoltre, avendo egli preso personalmente parte alla riunione del Comitato per la Lotta alle Infezioni Ospedaliere – occasionata dal manifestarsi di un’infezione in un altro paziente trasfuso un mese prima – in cui si era deliberato di evitare l’impiego di quel sangue, era ben conscio dei rischi connessi al suo utilizzo.

Quanto al primo capo di imputazione (e condanna), l’art. 328 c.p. statuisce che “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”. Trattasi, dunque, di un reato proprio, potendo essere posto in essere solo da chi rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, e tipico, in quanto gli atti d’ufficio richiesti devono rientrare nelle categorie fissate dalla lettera dell’articolo. Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte, confermando il tralatizio orientamento, ha chiarito ancora una volta come tra gli atti di ufficio per ragioni di “sanità” rientrano non solo “quegli atti, con carattere di indifferibilità e doverosità, aventi natura propriamente sanitaria, ma anche quelli strettamente funzionali alla realizzazione di questi ultimi” (ex multis Cass. 19039/2006). Su tale scorta, disattendendo le doglianze prospettate dalla difesa, secondo cui le indicazioni del rapporto “audit” non fossero ascrivibili a ragioni di “sanità”, i Giudici di legittimità ne hanno, invece, confermato la riconducibilità all’alveo dell’art. 328 c.p. In particolare, la Cassazione ha evidenziato che “proprio la natura e l’urgenza degli adempimenti ritenuti necessari all’esito dell’ispezione evidenziano quindi che gli atti di cui è stata contestata l’omissione dovevano essere compiuti per ragioni di <sanità> […]”. È chiaro ora, come e forse più di allora, che il direttore sanitario, richiesto di un atto di ufficio indifferibile, doveroso ed urgente, finalizzato alla tutela ed alla salvaguardia della salute e della vita, è gravato dall’obbligo di provvedervi, incorrendo, in caso contrario, nelle sanzioni previste dall’art. 328 c.p.

Ciò sempreché non siano trascorsi 6 anni dalla data di consumazione del reato, perché il tempo è galantuomo solo con chi si giova della sua simpatia. Così, la Suprema Corte, dopo aver riscontrato che la condotta del sanitario integra la fattispecie de qua, non ha potuto fa altro che dare atto dell’intervenuta prescrizione in data 25 ottobre 2020 (pur tenendo in debita considerazione le sospensioni maturate).

            Il secondo capo d’imputazione (e condanna), ossia somministrazione di medicinali guasti, è disciplinato dall’art. 443 c.p., a mente del quale “chiunque detiene per il commercio, pone in commercio o somministra medicinali guasti o imperfetti è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore ad euro 103”. Nonostante la chiara formulazione della disposizione codicistica, che introduce un reato di pericolo presunto, comune e doloso, la questione dibattuta riguarda la nozione di “medicinale” e si articola nella seguente domanda “il sangue umano è un medicinale?”. Come evidenziato dagli Ermellini, a mente degli artt. 2 e 3 del d.lgs. del 24 aprile 2006 n. 219, il sangue umano può classificarsi come medicinale se e solo se impiegato nel corso di un procedimento industriale per la fabbricazione di sostanze finalizzate alla cura ed alla profilassi dell’essere umano. La giurisprudenza e la dottrina unanimi ne hanno fornito un’interpretazione estensiva, specificando che si qualifica “come medicinale ai fini penali ogni sostanza o preparato che scientificamente assume una funzione diagnostica, profilattica, terapeutica, anestetica o che viene impiegata per predisporre l’organismo ad un esame avente scopo sanitario”, ricomprendendovi anche il sangue umano, atteso il suo evidente utilizzo terapeutico. A nulla son servite le difese del direttore sanitario sul punto, che invece colgono nel segno sotto il profilo della carenza dell’elemento soggettivo del reato. Ai fini dell’art. 443 c.p. è necessario, infatti, che la condotta dell’agente sia connotata da dolo generico – ossia dalla consapevolezza della somministrazione di medicinali che si sa essere imperfetti o guasti – non essendo, al contrario, sufficiente ad integrare il reato la sola colpa. Su tali considerazioni, la Suprema Corte ha annullato con rinvio il capo di condanna de quo, avendo la Corte territoriale erroneamente ritenuto integrato dalla condotta del sanitario il requisito del dolo, nella sua declinazione di dolo eventuale. In tal senso, la Corte ha evidenziato la differenza che intercorre tra dolo eventuale e colpa cosciente, specificando che “il dolo eventuale, quale atteggiamento psicologico dell’agente, non si identifica […] con l’accettazione del rischio della produzione dell’evento, in quanto tenere una condotta incauta, pur con la consapevolezza della situazione di rischio, è tipico della colpa”, bensì, si realizza quando l’agente non si sarebbe comunque determinato diversamente nella sua condotta, quand’anche la previsione del rischio fosse stata determinata in termini di certezza.

Dunque, nonostante sia stato chiarito che il sangue umano rientra nella nozione di “medicinale”; nonostante sia stato dimostrato che era guasto, in quanto contaminato, e che il direttore sanitario ne aveva cognizione e consapevolezza, stanti il precedente episodio di infezione e le risultanze del rapporto “audit”; nonostante sia stato provato che quel sangue contaminato era stato somministrato ad un paziente che, in ragione di ciò, aveva perso la vita, stupisce constatare che anche per il reato di cui all’art. 443 c.p. nessuno sia stato, finora, chiamato a rispondere.

Non è tutto.

Quanto al reato di morte in conseguenza di altro delitto, ex art. 586 c.p., la Suprema Corte ha dovuto, probabilmente per l’ennesima volta, quasi impartire una lectio ai Giudici territoriali, che erroneamente avevano fatto discendere la colpevolezza ex art. 586 c.p. direttamente e per ciò soltanto dalla colpevolezza ex art. 443 c.p., ascrivendo così la medesima condotta a due differenti norme penali. La Corte di Cassazione, infatti, ha chiarito che, ai fini dell’integrazione del reato in esame, è necessario che sussista la violazione di una specifica regola cautelare che non può essere assolutamente individuata nella mera violazione del precetto posto dalla norma penale che configura il reato doloso presupposto dell’art. 586 c.p., bensì “deve consistere nel mancato rispetto di una regola finalizzata a impedire l’evento in concreto verificatosi”, realizzandosi in caso contrario un’indebita forma di bis in idem sostanziale.     Peccato soltanto che delle due norme penali, la cui violazione è stata accertata in tre gradi di giudizio, nessuna abbia in concreto trovato applicazione e che, con l’intento di scongiurare l’abominio del bis in idem, il sanitario resti, dopo quasi dieci anni, impunito, con il conseguente rischio che anche il reato di somministrazione di medicinali guasti si prescriva.
            In conclusione, il reato di rifiuto di atti di ufficio è caduto in prescrizione; la condanna per somministrazione di medicinali guasti è stata annullata per erronea qualificazione dell’elemento soggettivo; è stata anche annullata la condanna per morte in conseguenza di altro delitto, per non aver la Corte d’Appello individuato la regola cautelare violata dal direttore sanitario, che evidentemente non si giova solo della simpatia del Tempo, galantuomo, ma anche dell’Ingiustizia, povera donna.

Articolo a cura della Dott.ssa Roberta Melissano